sabato 29 settembre 2007

Gegè


Il tono era di scherzo, non nego, per via di quel maledetto estro. E poteva anche parere che io parlassi con tanta fatuità: lo riconosco. Ma le proposte di un Gegè medico o avvocato o professore e perfino deputato, se potevano far ridere me, avrebbero potuto imporre a lui, io dico, almeno quella considerazione e quel rispetto che di solito si hanno in provincia per queste nobili professioni così comunemente esercitate anche da tanti mediocri coi quali, poi poi, non mi sarebbe stato difficile competere.

La ragione era un’altra, lo so bene. Non mi ci vedeva neanche lui, mio suocero. Per motivi ben altri dai miei.

Non poteva ammettere, lui, ch’io gli levassi il genero (quel suo Gegè ch’egli vedeva in me, chi sa come) dalle condizioni in cui se n’era stato finora, cioè da quella comoda consistenza di marionetta che lui da un canto e la figlia dall’altro, e dal canto loro tutti i socii della banca gli avevano dato.

Dovevo lasciarlo così com’era, quel buon figliolo feroce di Gegè, a vivere senza pensarci dell’usura di quella banca non amministrata da lui.

E io vi giuro che l’avrei lasciato lì, per non turbare quella mia povera bambola, il cui amore mi era pur così caro, e per non cagionare un così grave scompiglio a tanta brava gente che mi voleva bene, se, lasciandolo lì per gli altri, io poi per mio conto me ne fossi potuto andare altrove con un altro corpo e un altro nome.

Luigi Pirendello - Uno nessuno e centomila

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