lunedì 24 novembre 2008

Donne uomini



Una guerra a cui non ero abituato… era la guerra dei sessi, combattuta in una direzione soltanto: le donne contro gli uomini. Seduto ai piedi di un grande albero a Central Park le stavo a guardare. Le donne: sane, sicure di sé, robotiche. Prima passavano sudate, a fare il loro jogging quotidiano in tenute attillatissime, provocanti, con i capelli a coda di cavallo; più tardi passavano vestite in uniforme da ufficio – tailler nero, scarpe nere, borsa nera con il computer -, i capelli ancora umidi di doccia, sciolti. Belle e gelide, anche fisicamente arroganti o e sprezzanti. Tutto quello che la mia generazione considerava “femminile” è scomparso, volutamente cancellato da questa nuova, perversa idea di eliminare le differenze, di rendere tutti uguali e fare delle donne delle brutte copie degli uomini…
E più le donne sviluppano muscoli e arroganza, più gli uomini si fanno impauriti e titubanti. Se sono necessari per concepire un figlio capita loro di essere convocati per la bisogna e rimandati a casa dopo l’uso. Il risultato? Una grande infelicità, mi sembrava, specie se quello che mi capitava di osservare in silenzio, da sotto l’albero o dalla mia finestra, era il secondo atto della stessa storia: tante donne sole, sui quaranta, cinquant’anni, molte con la sigaretta in bocca, a portare a spasso un cane che mi pareva avesse il nome di qualche loro uomo che non c’era più. “Bill vieni qui da me”, “No Bill non attraversare la strada da solo”, “Avanti Bill, vieni ora, andiamo a casa”. Erano le stesse donne che anni prima correvano per costruirsi dei bei corpi, ora comunque attempati; le stesse donne che avevano investito la loro gioventù nel preteso sogno di una libertà guerriera, finita ora in solitudine, piccoli tic, tante rughe e, almeno per me che osservavo, in una pesante malinconia. Mi venivano spesso in mente le donne indiane, ancora oggi così femminili, così diversamente sicure di sé, così più donne a quaranta o cinquant’anni che a venti. Non atletiche ma naturalmente belle.

sabato 31 maggio 2008

Treinta años


"A los veinte años se lee como se vive: añadiendo unidades nuevas a nuestro cúmulo de ideas y pasiones. Mas ya a los treinta años sospechamos que no es lo decisivo el número bruto de unidades, sino la proporción entre el deber y el haber. Nuestro espíritu se recoge sobre sí mismo y con la frialdad de un contable se pone a hacer el balance de la vida. El cálculo ni puede ni tiene que ser científico. Con ser la ciencia cosa grave y seria, lo es mucho más este asunto. Se trata de un negocio sentimental que ha de solventarse por medio de íntimas ponderaciones.

Es inevitable: hacia los treinta años, en medio de los fuegos juveniles que perduran, aparece la primera línea de nieve y congelación sobre las cimas de nuestra alma. Llegan a nuestra experiencia las primeras noticias directas del frío moral. Un frío que no viene de afuera, sino que nace de lo más íntimo y desde allí envía al resto del espíritu un efecto extraño que más que nada se parece a la impresión producida por una mirada quieta y fija sobre nosotros. No es aún tristeza, ni es amargura, ni es melancolía lo que suscitan los treinta años: es más bien un imperativo de verdad y una como repugnancia hacia lo fantasmagórico.

Por esto es la edad en que dejamos de ser lo que nos han enseñado, lo que hemos recibido en la familia, en la escuela, en el lugar común de nuestra sociedad. Nuestra voluntad gira en redondo. Hasta entonces habíamos querido ser lo que creíamos mejor: el héroe que la historia ensalza, el personaje romántico que la novela idealiza, el justo que la moral recibida nos pone como norma. Ahora, de pronto, sin dejar de creer que esas cosas son tal vez las mejores, empezamos a querer ser nosotros mismos, a veces con plena conciencia de nuestros radicales defectos. Queremos ser, ante todo, la verdad de lo que somos y muy especialmente nos resolvemos a poner bien en claro qué es lo que sentimos del mundo.

Rompiendo entonces sin conmiseración la costra de opiniones y pensamiento recibidos, interpelamos a cierto fondo insobornable que hay en nosotros. Insobornable no sólo para el dinero o el halago, sino hasta para la ética, la ciencia y la razón. La misma convicción científica –esa aquiescencia que automáticamente produce en la periferia de nuestra personalidad el vigor de una prueba, de un razonamiento claro- toma un cariz superficial si se la compara con las afirmaciones y negaciones que inexorablemente ejecuta ese fondo sustancial.

Y en todo hombre o mujer que encontramos, en todo libro que leemos sólo nos interesa conocer cuál sea el resultado de su balance vital. Si no lo han hecho –como suele ocurrir, podrá la conveniencia social llevarnos a fingirles respeto, pero nuestra recóndita estimación se retira de ellos. Quien no se ha puesto a sí mismo en claro frente a estas cuestiones últimas, quien no ha tomado una actitud definida ante ellas, no nos interesa."

Ortega y Gasset, José; El Espectador I; Madrid; El Arquero; 1975; p.108
De nuevo gracias a Pablo

mercoledì 28 maggio 2008

El hombre solitario


Los sentimientos y observaciones del hombre solitario son al mismo tiempo más confusos y más intensos que los de las gentes sociables; sus pensamientos son más graves, más extraños y siempre tienen un matiz de tristeza. Imágenes y sensaciones que se esfumarían fácilmente con una mirada, con una risa, un cambio de opiniones, se aferran fuertemente en el ánimo del solitario, se ahondan en el silencio y se convierten en acontecimientos, aventuras, sentimientos importantes. La soledad engendra lo original, lo atrevido, y lo extraordinariamente bello: la poesía. Pero engendra también lo desagradable, lo inoportuno, absurdo e inadecuado.

La muerte en Venecia, Thomas Mann (1912)
gracias a Pablo (el cocinero asesino)

sabato 3 maggio 2008

Malanimo


Presi possesso dell'aula di studio. Trovai lì una cinquantina di furfanti, montanari paffuti dai dodici ai quattordici anni, filgi di mezzadri arricchiti, spediti a scuola dai genitori che volevano farne dei piccoli borghesi, a centoventi franchi al trimestre. Rozzi, insolenti, parlavano tra loro un grossolano dialetto del Cevenne di cui non capivo nulla, e avevano quasi tutti quella bruttezza tipica dell'infanzia che si trasforma, grosse mani rosse, piene di geloni, voci da galline raffreddate, lo sguardo abbrutito e, come se non bastasse, l'odore del collegio. Mi odiarono subito, senza conoscermi. Per loro ero il nemico, il secondino, e dal giorno in cui mi sedetti in cattedra, tra di noi fu la guerra, una guerra continua, senza tregua, ogni istante.

Ah! Crudeli bambini, quanto mi fecero soffrire!
Vorrei parlarne senza rancore, queste pene sono così, lontane! E invece no, non posso; e, guardate un po', nel momento stesso in cui scrivo queste righe sento la mano tremarmi di febbre e di emozione.
mi sembra die ssere ancora lì.
(...)

E' così terribile vivere circondato dal malanimo, avere sempre paura, essere sempre sul chi vive, sempre armato, è così terribile punire - si fanno ingiustizie anche senza volerlo -, così terribile dubitare, vedere ovunque tranelli, non mangiare tranquilli, non trovare riposo nel sonno, pensare sempre, anche negli attimi di tregua: "Ah mio Dio, cosa mi faranno adesso?"

Alphonse Daudet, cit in Pennac, Diario di Scuola

mercoledì 23 aprile 2008

Valore



Albert Einstein

sabato 5 aprile 2008

Rousseau: la condizione di uomo.


Vi fidate dell'ordine attuale della società senza pensare che tale ordine è soggetto a inevitabili rivoluzioni e che vi è impossibile tanto prevedere quanto prevenire quella che riguarda i vostri figli. Il grande diventa piccolo, il ricco diventa povero, il monarca diventa suddito; i colpi del destino sono forse così rari che voi possiate ritenervene indenni? Ci avviciniamo a un periodo di crisi e al secolo delle rivoluzioni. Chi può prevedere ciò che diventerete?

Tutto ciò che gli uomini fanno, gli uomini possono distruggerlo; gli unici segni indelebili sono quelli impressi dalla natura, e la natura non crea né principi, né ricchi, né gran signori. Cosa farà dunque, nella bassezza, quel satrapo che avrete allevato solo per la grandezza? Cosa farà nella povertà quel pubblicano che sa vivere soltanto nell'oro? Cosa farà, sprovvisto di tutto, quel fastoso imbecille che non sa avvalersi di sé stesso e si affida solo a ciò che é estraneo a lui?

Fortunato quindi chi sa abbandonare la condizione che lo abbandona, e rimanere uomo a dispetto della sorte! Che si lodi quanto si vorrà il re sconfitto che come un folle vuole essere sepolto sotto le macerie del suo trono; per lui io provo disprezzo; vedo che egli esiste solo con la sua corona in testa, e che non é più nulla se non é re; ma colui che la perde e sa farne a meno è allora al di sopra di essa.

Dal rango di re, che un vile, un malvagio, un folle può adempiere come chiunque altro, sale alla condizione di uomo, che pochi uomini sanno adempiere...

J. J. Rousseau, Emilio,
cit. in D. Pennac, Diario di Scuola

lunedì 24 marzo 2008

Linguaggio e realtà


Con i verbi, gli aggettivi e le particelle espletive aveva qualche difficoltà. Eccetto “sì” e “no” – che del resto pronunciò molto tardi – cacciava fuori soltanto sostantivi, anzi in verità soltanto nomi propri di oggetti concreti, piante, animali e persone, e anche allora solo quando questi oggetti, piante, animali o persone lo sconvolgevano all’improvviso con il loro odore. (…)

… tutte queste disparità grottesche tra la ricchezza del mondo percepito con l’olfatto e la povertà del linguaggio facevano sì che il ragazzo Grenouille dubitasse del senso del linguaggio in genere, e si rassegnasse a farne uso soltanto quando i rapporti con altri esseri umani lo rendevano indispensabile.

Patick Suskind, Il Profumo

mercoledì 19 marzo 2008

Durkheim: dèi, popoli e religioni



Poiché gli dèi altro non sono che ideali collettivi personificati, ogni indebolimento della fede testimonia in realtà l’indebolimento dell’ideale collettivo; ed esso può indebolirsi soltanto se la vitalità sociale è a sua volta colpita. In una parola, è inevitabile che i popoli muoiano quando gli dèi muoiono, se gli dèi non sono altro che i popoli pensati simbolicamente

Durkheim, Textes citato in Moscovici, La fabbrica degli dei

sabato 8 marzo 2008

Moscovici: Scienziati esploratori


Così come li vedo io, questi psicosociologi di domani avranno la possibilità di proclamarsi e di essere chiamti degli esploratori. Saranno essi più simili ad “amatori” o ad artisti, così come lo fummo noi, quando intraprendemmo a fare psicologia sociale dopo la guerra? Oppure saranno più simili a professionisti, nell’accezione enfatica e falsamente modesta che questo termine ha oggi assunto? Sceglieranno essi i rischi di un’avventura intellettuale personale o piuttosto le sicurezze di un paradigma dalle possibilità riconosciute e misurate collettivamente? Probabilmente tutt’e due: amatori e artisti per le loro curiosità, essi saranno dei professionisti per i loro metodi e le loro competenze.

Serge Moscovici in Rappresentazioni sociali e movimenti collettivi di Jan Pierre Di Giacomo

venerdì 4 gennaio 2008

Audacia


C’è una verità elementare la cui ignoranza uccide
innumerevoli idee e splendidi piani:
nel momento in cui uno si impegna a fondo,
anche la Provvidenza allora si muove.
Infinite cose accadono per aiutarlo,
cose che altrimenti non sarebbero mai avvenute…
Qualunque cosa tu possa fare, o sognare di poter fare,
incominciala.
L’audacia ha in sé genio, potere e magia.
Incominciala adesso.

J.W.Goethe, Divano orientale occidentale

giovedì 3 gennaio 2008

Ricchezza e povertà



..."E' una bella cosa" egli dice "la povertà accettata con animo lieto". Ma, se è ben accolta, non è più povertà. E' povero non chi possiede poco, ma chi brama avere di più. Che conta quanto uno abbia nella cassaforte o nei granai, quanti armenti abbia al pascolo o quanto gli rendano i crediti, se pensa sempre alla ricchezza altrui e fa calcoli, non su quello che possiede, ma su quello che vorrebbe acquistare? Mi chiedi quale sia il giusto limite della ricchezza. Avere anzitutto l'indispensabile, poi ciò che basta...

Seneca, L'arte di vivere